La (vera) replica all’articolo del Corriere Economia sulla legge sull’acqua pubblica

Qualche giorno fa mi ha contattato Ferruccio De Bortoli facendomi una breve intervista sulla mia proposta di legge per l’acqua pubblica. Mi ha cortesemente annunciato che mi avrebbe fatto rileggere i virgolettati che mi attribuiva e nel congedarsi mi ha voluto far sapere che lui ha una posizione nettamente contraria alla normativa che stiamo discutendo alla Camera.

Lunedì 4 marzo trovo sul Corriere Economia un articolo a sua firma (disponibile anche qui) che termina con un paragrafetto intitolato “La replica” (abbiamo poi saputo che tale titolo non è stata fatto da De Bortoli ma dalla redazione). In ogni caso un titolo decisamente fuorviante, perché logica vuole che si replichi a contestazioni dettagliate, mentre nel caso di specie ne sono venuta a conoscenza soltanto leggendo l’articolo ormai stampato, trovando in calce le poche righe a me attribuite. 

L’allegato economico del Corriere ha poi accettato di ricevere un testo che sintetizza la mia posizione rispetto alle contestazioni che muoveva l’articolo. Il testo è una sintesi della (vera) replica che avevo inviato in prima battuta al giornale, e che riporto di seguito. 

Il confronto con Maduro. Inaspettatamente anche Ferruccio De Bortoli, come molti suoi colleghi meno blasonati prima di lui, si è lanciato in un mirabile confronto tra la proposta di legge del MoVimento 5 Stelle e la legislazione in materia di acqua approvata recentemente in Venezuela. Il tentativo è quello di far passare il concetto secondo il quale l’acqua pubblica e in generale il nostro operato ci porterebbero a vivere anche in Italia crolli economici e guerre civili come nel Paese sudamericano. 

Potremmo rispondere che, visto che la nostra battaglia è iniziata più di 12 anni fa, è casomai Maduro ad aver copiato noi. Ironia a parte, il tema è che allo stato attuale non si hanno elementi per giudicare la portata della legge venezuelana, mentre si vogliono ignorare i tanti casi di passaggio alla gestione pubblica e virtuosa, sempre più diffusi nel mondo, su cui invece media e ricercatori a livello globale stanno riflettendo e approfondendo. Si preferisce prendere come metro di paragone un Paese chiaramente in difficoltà per fare il gioco di chi vuole mantenere l’attuale modello di gestione e i guadagni – per pochi e molto elevati – che porta con sé. 

Le doti salvifiche del privato. La situazione del servizio idrico viene giustamente definita dall’autore dell’articolo “drammatica” in molte zone d’Italia, ma non si approfondiscono i motivi per cui l’intervento del privato nella gestione non abbia risollevato le sorti del servizio idrico come promesso. Perché dunque dovremmo mantenere intatto l’attuale modello di gestione se non migliora il servizio ai cittadini? Il privato viene dipinto come unico faro per gli investimenti in Italia ma, dati alla mano, mentre di anno in anno gli utili continuavano a salire, le cifre destinate agli investimenti si contraevano sempre più. Non dovrebbe, un’azienda in salute, aumentare gli investimenti all’aumentare dell’utile? La spesa pro capite italiana per investimenti è di 40 euro contro i 94 della media europea, dunque se è vero che le bollette italiane sono tra le più basse d’Europa è anche vero che gli investimenti in questi anni sono stati del tutto inadeguati alle esigenze di radicale ammodernamento della rete.

Il presunto ritorno al passato. Tra le accuse mosse nell’articolo, c’è quella di voler tornare al modello di gestione vigente prima della legge Galli, nell’assunto che prima fosse estremamente frammentario, mentre con l’entrata in vigore della legge il quadro si sia semplificato. Ebbene, a 25 anni dalla Legge Galli, in Italia operano ancora circa 2.000 gestioni differenti. Il riordino della governance è stato operato più in virtù del recepimento delle direttive europee che per l’attuazione della normativa italiana. Nella nostra proposta, invece, proprio al fine di omogeneizzare la situazione nel Paese prevediamo la possibilità di estendere la definizione degli ambiti territoriali alle città metropolitane o ai bacini idrografici. Altro che frammentazione!

Il disastro Sblocca Italia. Che il risultato del referendum del 2011 sia stato recepito dal decreto Sblocca Italia del 2014 è un’affermazione quasi fantascientifica. Quel decreto è stata una vera e propria aggressione ai beni comuni, con l’articolo 7 che ha di fatto privatizzato il servizio idrico, imponendo un unico gestore in ciascun ambito territoriale e favorendo grandi aziende e multiutility. Più nel dettaglio, il gestore unico dell’ATO è diventato quello che forniva il servizio idrico ad almeno il 25% della popolazione dell’ATO stesso. In questo modo, tutte le piccole società e consorzi legati ai vari Comuni sono state assorbite dalle grandi aziende. Si è favorito il soggetto che ha come scopo finale l’utile a discapito del gestore pubblico, richiesto dai cittadini con il voto del 2011: affermare che lo Sblocca Italia abbia rispettato l’esito referendario significa dunque affermare il falso.

Cosa ci chiede l’Europa. Dall’articolo emerge che la presenza di privati nella gestione sia una opzione imposta dalle norme europee. In effetti la normativa europea non prescrive di favorire il privato, ma di lasciare libera scelta ai territori, che però con lo Sblocca Italia non hanno potuto scegliere e sono stati obbligati a optare per il gestore più grande. 

Inoltre, le prescrizioni che arrivano dall’Unione Europea non possono essere richiamate soltanto quando fanno comodo alle proprie tesi per poi dimenticarle quando si parla, ad esempio, di depuratori sotto infrazione, per i quali i tanto efficienti privati non hanno provveduto. Una situazione grave e dispendiosa che deriva da anni di mancati investimenti e che non riguarda solo il Mezzogiorno delle gestioni dirette da parte degli enti locali. Anche nelle Regioni del Nord a gestione prevalentemente privata si registrano agglomerati non a norma: 184 in Lombardia e 57 in Toscana. Questi ed altri esempi dimostrano che l’equazione gestione pubblica = infrazione è una forzatura che assolve ingiustamente i gestori con presenza di privati nella proprietà.

La bufala dell’acqua già pubblica. Il refrain dell’acqua già pubblica si basa su una lettura faziosa dei dati: per 45 milioni di nostri concittadini la gestione è in mano a enti di diritto privato, ovvero società per azioni. Ciò vuol dire che, al di là di chi sia attualmente proprietario di queste azioni (soggetto pubblico o privato), esse possono essere cedute anche a soggetti privati, fondi di investimento o società straniere. È accaduto di recente in Calabria che le azioni di Sorical in mano a Veolia siano state cedute a una banca irlandese in virtù di un contratto secretato. Se è gestione pubblica questa (e non lo è), sia chiaro che noi vogliamo ben altro tipo di gestione pubblica!

Un passaggio graduale al nuovo modello. Se Ferruccio De Bortoli ci avesse dato la possibilità di rispondere approfonditamente gli avremmo dato una notizia: sulla revoca delle concessioni agli attuali gestori non prevediamo una interruzione drastica, ma il passaggio al nuovo modello sarà graduale, per dare modo a tutti i soggetti coinvolti di prepararsi al nuovo assetto gestionale. Questo anche a garanzia della continuità della gestione industriale e del mantenimento dei livelli occupazionali.

Prima i cittadini, poi gli investitori. Parlare di effetti negativi della legge sugli investitori privati e internazionali non ha senso per diverse ragioni. Intanto, gli effetti negativi della gestione attuale e dei mancati investimenti si fanno già sentire oggi e condizionano la quotidianità e la salute dei cittadini. La nostra legge compie una scelta tra l’interesse dei cittadini alla garanzia di un diritto umano universale e a un servizio di qualità e quello di privati e finanza a fare business mettendo a garanzia dei loro debiti le bollette pagate dagli italiani. Questo già accaduto in molte parti del mondo e i risultati per l’interesse collettivo sono tutt’altro che positivi. Quello che invece la legge non vieta è che i privati possano partecipare agli appalti per la manutenzione della rete idrica, favorendo così l’economia e l’occupazione. 

Perché la vigilanza al ministero dell’Ambiente. Su questo punto chiariamo subito che, in quanto monopolio naturale alla fonte, l’acqua non può essere sotto la vigilanza e il controllo di un’autorità (Arera in questo caso) che ha lo scopo di garantire la concorrenza. Che concorrenza c’è nel servizio di cui usufruisce ciascuno di noi: possiamo forse decidere di cambiare gestore perché ne individuiamo un altro più economico o efficiente? Ecco perché diamo maggiore centralità allo Stato attraverso i suoi ministeri nel controllo e nella garanzia del servizio alla cittadinanza. Arera resterà ciò che è ora, una autorità terza garante del mercato e indipendente. Non si capisce perché, privandola del potere di vigilanza sul servizio idrico, le si toglierebbe indipendenza. 

A proposito del ministero, poi, De Bortoli dà anche una non notizia quando “denuncia” che “secondo la proposta di legge finirebbero sotto il controllo politico ministeriale 7 autorità di distretto”. Forse non sa che lo sono già oggi, e che avere una direzione dedicata all’acqua al ministero o qualcosa di simile rappresenta una garanzia per questo particolare settore, e non un rischio. 

La giungla delle tariffe. Il problema principale delle tariffe per il servizio idrico in Italia è la situazione troppo diversificata nei territori, con Comuni limitrofi che hanno spesso una disparità di trattamento insensata. Per non parlare dei numerosi casi in cui arrivano bollette pazze o aumenti repentini che superano ampiamente il doppio della tariffa precedente, senza peraltro alcun sensibile miglioramento del servizio. La tariffa, e dunque la bolletta, deve essere chiara e comprensibile per gli utenti. È bene precisare che oggi in bolletta c’è anche l’utile del gestore privato – abolito con il referendum ma magicamente riapparso per decisione di Arera. La nostra proposta di legge sull’acqua pubblica prevede di destinare ogni centesimo pagato dal cittadino al miglioramento del servizio, ricorrendo prioritariamente ai soldi che oggi finiscono in dividendi: un cambio di rotta che non andrà ad aumentare le bollette e addirittura potrà portare diminuzioni fino al 30%. 

Le categorie deboli sono già protette attraverso il bonus idrico? L’affermazione dell’articolo va trasformata quanto meno in una domanda. Purtroppo la gestione attuale non dà piena attuazione all’accesso all’acqua come diritto umano universale e questo significa che la “tutela dei deboli” è ancora troppo discrezionale. Ad esempio, siamo certi che la platea del bonus idrico valutata in base al reddito Isee garantisca davvero efficacemente le categorie deboli? Noi no, e in ogni caso pensiamo che i 50 litri d’acqua giornalieri debbano essere garantiti a tutti senza distinzione. 

Le aziende di grandi dimensioni hanno performance migliori? L’articolo di De Bortoli annuncia uno studio di Astrid che lo confermerebbe. Premesso che Astrid non è un’autorità indipendente ma un think tank d’area Pd (presieduta dell’ex ministro ed ex presidente di Cdp Franco Bassanini), i dati a nostra disposizione mostrano che i grandi gestori hanno costi maggiori: per esempio i costi operativi delle società quotate – come rileva la stessa Arera – sono di gran lunga superiori ai costi operativi della media dei gestori. Sono stati poi gli stessi gestori delle in house del Nord a ribadire in sede di audizione, che è possibile una gestione virtuosa anche senza le famose economie di scala e le grandi aggregazioni in multiutility, lontane dai cittadini e dagli enti locali.

“Difficile che gli investimenti possano essere garantiti solo dalla mano pubblica”. A proposito di affermazioni “ideologiche”, eccone un esempio. Un servizio gestito in maniera efficace può produrre utili da reinvestire nel servizio stesso, così come anche lo Stato può e deve fare la sua parte stanziando fondi pubblici a cui, come già avviene oggi, possono attingere i gestori. Il governo Conte ha ad esempio finanziato e reso operativo il fondo del Piano invasi e acquedotti, che sosterrà le opere di ammodernamento da Nord a Sud con un miliardo in 10 anni. E stiamo anche lavorando per eliminare progressivamente le tubature contenenti piombo e amianto. Ma ci sono tutti i presupposti per fare di più nei prossimi anni, risolvendo la vera e propria emergenza delle reti colabrodo (abbiamo una media del 40% di perdite) e mettendo finalmente in sicurezza la nostra risorsa più preziosa.

 

di Federica Daga, portavoce del MoVimento 5 Stelle alla Camera, prima firmataria della proposta di legge  sull’acqua pubblica

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