LA MANCATA CONQUISTA ROMANA DELLA CALEDONIA

ValloAdriano

Viviamo un momento storico nel quale trionfa l’avanzata del potere economico finanziario a danno dei diritti della persona.
Credo che da questa “cronaca”, vecchia di quasi due millenni, possa nascere un qualche ragionamento fecondo.
Lo spero soprattutto per coloro che si sentono impotenti di fronte ai poteri forti che dalla loro hanno la forza e le leggi (modificate in favore di chi?) e che si chiedono come agire per arrivare all’obiettivo comune.

Mi auguro cresca in ognuno di noi maggiore consapevolezza delle possibilità che abbiamo, maggiore consapevolezza che esiste sempre un’altra strada da poter percorrere, che possiamo agire fuori dalla gabbia che il sistema ha costruito per noi e intorno a noi.
Le battaglie andranno svolte su un piano diverso da quello scelto dai nostri avversari, dove loro siano privi di forza e potere.

Ringrazio Severo L. per aver condiviso questo testo.
Mandiamoli a caccia dell’esercito che non c’è, facciamo della guerriglia un’arte e del territorio la nostra casa comune.

LA MANCATA CONQUISTA ROMANA DELLA CALEDONIA

Settimo Severo, primo imperatore africano della storia di Roma, militare salito al comando al termine della guerra civile seguita alla morte di Commodo (quello del Gladiatore), pensò di dare lustro al proprio nome puntando ad una grande vittoria sulle turbolente tribù che abitavano le terre a nord del Vallo di Adriano, oltre i territori romani della Britannia.

Erano popolazione celte, con cui un secolo prima s’era già scontrato Gneo Giulio Agricola, senza giungere ad una soluzione definitiva.

E fu così che Settimio, col figlio primogenito Caracalla, sul finire del 208 dopo Cristo, mise in marcia un potente esercito, supportato pure da una grande flotta navale lungo le coste orientali dell’isola, nei territori che si estendevano verso nord.

Contrariamente alle speranze dell’imperatore, la campagna fu lunga ed estenuante e si concluse solo nel 211 dopo Cristo, con la morte dell’imperatore e con i figli Caracalla e Geta che pensarono bene come non fosse il caso di esaudire in maniera postuma il desiderio dell’esasperato padre, che avrebbe voluto il totale sterminio di quelle popolazioni, uomini, donne e bambini compresi.

Cos’era successo?

Com’era stato possibile che il più potente esercito del mondo, con i più ampi mezzi a disposizione, comandato da un uomo dalle indubbie capacità militari, fosse stato tenuto per anni in scacco da popolazioni considerate selvagge, vestite solo di tatuaggi, armate di lancia, spada ed un piccolo scudo, senza elmi, senza corazze e senza condottieri?

Per capirlo occorre prima conoscere la logica di Settimio, militare, si, ma anche ben consapevole politico romano.

Se la “pacificazione” dei confini settentrionali della Britannia poteva essere la motivazione d’una campagna, la ricaduta “politica” della stessa sarebbe stata tutta nelle modalità con cui si doveva cogliere il risultato: una grande vittoria in una battaglia in campo aperto, la conquista con la sottomissione o la distruzione d’una capitale ed il trofeo di un re da portare in catene nel trionfo lungo le strade di Roma.

Erano questi i segni della consacrazione di cui Settimio aveva bisogno.

Ma dagli inizi del 209, quando Settimio, Caracalla ed il loro esercito si misero in cammino, attraversando in lungo ed il largo prima i territori tra il Vallo di Adriano e quello di Antonino e poi quelli nella parte nord orientale oltre il secondo vallo, non trovarono modo di combattere una sola battaglia in campo aperto, non ebbero la ventura di imbattersi in una sola città nemica, non trovarono a contrastarli né alcun re barbaro, né alcun condottiero della cui testa potersi vantare.

Trovarono solo foreste, fiumi, montagne e paludi, qualche capanna abbandonata ed il logorio della guerriglia di pastori e cacciatori non disposti ad accettare la “civiltà” portata sulla punta del gladio dai romani.

Non trovarono eserciti, città, condottieri e re perché semplicemente non c’erano.

I Pitti, i più “selvaggi” dei Caledoni, quelli che vivevano nella parte centro occidentale della Caledonia sino alle highland ed all’oceano, vivevano in clan e solo quando serviva affidavano al più valoroso il compito di guidarli, decidendolo in modo democratico.

Non avevano né beni personali né proprietà, vivevano in capanne di fango e paglia, ma consideravano il ferro più prezioso dell’oro e ne sapevano fare buon uso.

I pascoli per le greggi e le foreste per la caccia non erano di nessuno, ma ognuno ne poteva godere purché se ne prendesse cura.

Non erano né buoni né teneri e sapevano essere crudeli e feroci, ma erano uomini liberi nella terra che abitavano.

Settimio Severo ha cercato invano il nemico, il nemico che poteva conoscere e riconoscere, il nemico che avrebbe utilizzato la sua stessa grammatica, fatta di potere e forza.

Non lo ha trovato perché non c’era.

E non ha compreso che l’avversario irriducibile era proprio l’assenza dello specchio nel cui riflesso declinare il nemico.

Non c’era un potere contrapposto al proprio con cui giocarsi sul piano della forza la partita, non c’era una linea di confine oltre la quale misurare la potenza del proprio potere.

C’era solo un territorio aspro e inospitale.

Ed un popolo che quel territorio viveva senza possederlo.

E stata questa la ragione che, probabilmente in maniera assolutamente inconsapevole, ha fatto si che ai Caledoni non sia toccato in sorte lo stesso destino di tanti popoli che con la loro potente organizzazione e la forza dei loro re, hanno dovuto chinare il capo di fronte alla potenza di Roma e stringere ai polsi i monili dello stile di vita romano.

 

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